Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia

Corso di Laurea Specialistica in Economia e Gestione delle Reti e dell’Innovazione

 

 

Economia dell’Innovazione

prof.ssa Margherita Russo

Anno Accademico 2004/05 (primo semestre)

 

 

Analisi del processo di innovazione all’interno del

distretto ceramico di Sassuolo-Scandiano.

 

 

Relazione a cura di: Fabio Ruini (matricola nr: 7496)

 

 

Indice:

 

Introduzione................................................................................................................................. 2

 

Il processo di cambiamento tecnico all’interno del distretto ceramico....................................................... 2

Le interrelazioni tra le imprese ceramiche e le imprese produttrici di macchine.......................................... 5

 

L’emergere delle innovazioni: un parallelo con la teoria degli equilibri punteggiati.................................... 6

 

I fallimenti nella diffusione di un’innovazione: il caso del kervit............................................................ 7

Brevetti e network esternalities: un freno all’innovazione.......................................................... 9

Il crollo del potenziale generativo delle relazioni.................................................................... 10

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

 

 

Numero caratteri: 19'876.


Introduzione

 

La maggior parte della letteratura economica relativa al cambiamento tecnico si concentra sull’importanza dell’attività di ricerca e sviluppo formalizzata, svolta all’interno della grande impresa[1]. L’idea di fondo è che soltanto le grandi imprese siano in grado di realizzare le innovazioni veramente importanti, mentre le realtà di dimensioni minori non possano far altro che agire da “meri imitatori[2]” o comunque apportare piccole e poco significative modifiche alle innovazioni concepite altrove.

 

Il distretto ceramico di Sassuolo-Scandiano, fin dal momento della sua nascita, ha costituito un’eccezione a questo consolidato schema, che non è infatti in grado di spiegare come possa manifestarsi un ritmo elevato di innovazioni all’interno di un tessuto produttivo caratterizzato da numerose entità di piccole dimensioni e privo di una vera e propria impresa “leader”.

 

Una delle caratteristiche principali della produzione di piastrelle di ceramica è la relativa semplicità del processo produttivo che vi sta alla base[3]. Nel secondo dopoguerra, quando le imprese ceramiche sassolesi iniziarono a crescere, sia in termini di numerosità, sia come capacità produttiva, ad un imprenditore era sufficiente acquistare poche e semplici macchine per essere in grado di avviare la sua attività nel promettente settore delle piastrelle. In un settore quale quello ceramico, il cambiamento tecnico è legato da sempre al cambiamento nelle caratteristiche delle macchine utilizzate per la produzione. Il progresso tecnico è perseguibile in sostanza da un’impresa ceramica attraverso l’investimento lordo.

 

Apparirebbe ragionevole, a questo punto, considerare come cardine dell’analisi il ruolo delle imprese produttrici di macchine ed attrezzature per la ceramica. In realtà, la fitta rete di interrelazioni tra imprese ceramiche ed imprese produttrici di macchine, caratteristica costante nel tempo del distretto ceramico, ci spinge ad affrontare questo studio utilizzando come unità di analisi proprio il distretto nel suo complesso.

 

Il processo di cambiamento tecnico all’interno del distretto ceramico

 

Nel corso degli anni, il cambiamento tecnico all’interno del distretto ceramico ha avuto luogo grazie all’interazione sinergica di cinque forze distinte:

 

  1. il trasferimento di tecnologie provenienti da altri settori;
  2. l’attività di ricerca di nuove tecniche;
  3. le convergenze tecnologiche e gli squilibri tecnici;
  4. le complementarità tecniche;
  5. l’invenzione collettiva.

 

L’attività diretta di ricerca è dunque soltanto una, neppure tra le più rilevanti, componenti del processo di cambiamento. Cerchiamo di analizzare con semplici esempi il ruolo delle cinque forze appena individuate.

 

Già a partire dagli anni ’50, il tentativo di meccanizzare l’operazione di pressatura delle piastrelle fece emergere i primi significativi squilibri tecnici: il materiale da pressare doveva infatti essere più fine e scorrevole rispetto a quello tipicamente disponibile all’epoca. Per sopperire a questa esigenza fu introdotto il concetto della “macinazione a umido”, in sostituzione della tradizionale variante “a secco”. Questa tecnica di macinazione[4] era già in uso presso altre industrie, in particolar modo in quella alimentare e dovette essere adattata, mediante una lunga sequenza di modifiche, alla produzione di piastrelle in ceramica.

 

Situazione analoga si ottenne in riferimento all’operazione di pressatura. Le tradizionali presse “a bilanciere” ed “a ginocchio”, utilizzate nella produzione ceramica per tutti gli anni ’40, presupponevano che l’intera sequenza dell’operazione di pressatura fosse affidata al lavoratore di turno. L’esigenza di meccanizzazione del processo produttivo fece propendere per l’adozione di nuove presse “a frizione”, già utilizzate nell’industria meccanica per lo stampaggio e la tranciatura di lamiere. Gli adattamenti realizzati, frutto di un lungo processo cumulativo di piccoli miglioramenti, servirono per trasformare le presse utilizzate nell’industria meccanica in uno strumento specifico per la produzione ceramica.

 

Lo schema è lo stesso in entrambi i casi appena descritti. Macchine prodotte da imprese legate ad altre industrie (solitamente localizzate all’estero) vengono impiegate nella produzione di piastrelle, al termine di un lungo e complesso processo di adattamento. In ambedue le circostanze rievocate, gli squilibri tecnici emersi nel nuovo contesto, tra le varie parti di una macchina o di un’operazione complessa, servirono per focalizzare l’attività di ricerca in particolari direzioni.

 

Sarebbe però riduttivo interpretare in termini di trasferimento di tecnologie tutti gli sviluppi tecnici che storicamente ed abitualmente avvengono all’interno del settore ceramico. Anche la ricerca specifica sulle tecniche di produzione ha rivestito un ruolo importante nella storia del distretto ceramico. L’esempio più evidente di ciò si ha in riferimento all’introduzione della tecnica di produzione in “monocottura”.

 

Nonostante i miglioramenti derivati dall’introduzione dei forni a tunnel in sostituzione delle tradizionali fornaci Hoffmann, il tempo di cottura delle piastrelle rappresentò a lungo il vero “collo di bottiglia” nella produzione di piastrelle[5]. Fu così che, a fine anni ’60, la ceramica Marazzi decise di aprire uno stabilimento sperimentale a Ricò di Fornovo[6], il cui compito era quello di svolgere ricerca su progetti quali la riduzione dei tempi di cottura e la produzione in monocottura. Dopo alcuni anni di studi approfonditi, modificando radicalmente un forno di produzione statunitense solitamente utilizzato per la tempra di lastre di vetro, i ricercatori della Marazzi riuscirono a perseguire contemporaneamente entrambi gli obiettivi che si erano preposti[7]. La produzione in monocottura divenne una realtà. Il tempo di cottura della piastrella smaltata, complice il successivo apporto di alcuni miglioramenti al forno a rulli brevettato dalla ceramica sassolese, si ridusse dalle precedenti 16 ad appena un’ora.

 

Analizzando da una prospettiva un po’ più ampia i casi fino a qui esposti, è impossibile non accorgersi di come la meccanizzazione delle varie operazioni di movimentazione[8] abbia comportato una serie di problemi largamente simili tra loro, la cui risoluzione è stata individuata facendo ricorso ad abilità e conoscenze anch’esse largamente simili. Si tratta di ciò che Rosenberg definisce come “convergenze tecnologiche[9]”. Di esse approfittò in particolare il processo di smaltatura, il quale poté essere reso completamente automatico grazie ai passi da gigante che, ai tempi della sua introduzione nell’industria ceramica, stava compiendo l’elettronica.

 

Vi è poi la questione delle complementarità tecniche. Se uno degli aspetti importanti per un inventore è quello di appropriarsi dei vantaggi che derivano dalla sua invenzione, occorre prendere in considerazione il fatto che, in molti casi, questi vantaggi non derivano tanto dal brevetto, quanto piuttosto dall’operare delle complementarità tecniche.

 

Un esempio lampante di ciò ci viene dalla storia dell’automatizzazione del processo serigrafico. Quando nei primi anni ’60 ebbe inizio la produzione di macchine per la serigrafia, molte imprese costruttrici di macchine si gettarono a capofitto nel nuovo mercato[10]. Particolare successo lo riscosse la macchina progettata dalla System, la cui peculiarità era che il retino, necessario per dare forma alla decorazione, non veniva steso su un telaio rettilineo, ma su di un innovativo tamburo cilindrico.

 

Generalmente, chi produce macchine serigrafiche non produce anche i retini, la cui produzione è invece realizzata in stretto contatto con coloro che preparano i disegni da applicare sulle piastrelle e che si avvalgono di tecnologie e di competenze diverse da quelle impiegate nella produzione di macchine serigrafiche. Consapevole del fatto che, nonostante la protezione brevettuale, la tecnologia della propria macchina sarebbe stata ben presto imitata dai competitors, la System si concentrò sulla produzione delle particolari macchine necessarie per la creazione dei retini cilindrici. Fu tramite esse, a tutti gli effetti delle complementarità tecniche, che l’impresa riuscì a trarre ottimi profitti, decisamente superiori rispetto a quelli derivanti dalle licenze per il brevetto.

 

Abbiamo detto poco fa che l’inventore di una nuova macchina è generalmente interessato ad appropriarsi dei benefici derivanti dall’innovazione. La probabilità che ciò accada è funzione delle quantità di conoscenze specifiche incorporate nell’innovazione stessa. Se, come nel distretto ceramico è avvenuto in moltissimi casi, la generazione di innovazioni è radicata nelle conoscenze tecniche “diffuse” nel tessuto sociale della zona, risulta molto difficile riuscire a trarne benefici.

 

Si pensi ad esempio a quanto è accaduto agli albori della meccanizzazione, quando essa richiedeva dispositivi elettronici e meccanici molto economici e relativamente semplici da utilizzare. Questa condizione permise alle attrezzature meccaniche per la movimentazione di diffondersi con grande rapidità, sebbene gli unici vantaggi che le imprese potevano trarne erano esprimibili in termini di aumento della produttività. Questo ci suggerisce la conclusione, semplice, che la brevettabilità di un’innovazione non costituisce un vincolo insormontabile alla sua realizzazione.

 

Le interrelazioni tra le imprese ceramiche e le imprese produttrici di macchine

 

Come già abbiamo accennato in apertura, le interrelazioni tra imprese ceramiche ed imprese produttrici di macchine per la ceramica hanno sempre giocato un ruolo cruciale nel processo di cambiamento tecnico interno al distretto ceramico di Sassuolo-Scandiano, rendendo possibile un elevato ritmo di cambiamento tecnico in un settore nel quale le imprese non svolgono rilevanti attività di R&D[11].

 

L’operare delle forze che sollecitano il cambiamento tecnico può essere meglio compreso quando l’unità d’analisi è il sistema produttivo locale. Generalmente, non sono infatti le singole imprese ceramiche ad inventare nuove macchine: esse si limitano a fornire, agli artigiani ed alle imprese produttrici di macchine, vaghe indicazioni di massima sugli sviluppi tecnici che farebbero loro comodo.

 

Le imprese produttrici di macchine costituiscono in questo schema una sorta di reparto di R&D esterno alle imprese ceramiche. A loro viene affidata la progettazione e la messa a punto dei nuovi impianti, con tutti i rischi connessi a tali attività. D’altro canto, agendo in questo modo, i produttori di macchine hanno il grosso vantaggio di poter mettere a punto le loro innovazioni, testandole direttamente nella produzione su scala industriale.

 

Non si cada però nell’errore di pensare che siano sempre state le imprese ceramiche a tenere in mano le redini del gioco. La storia del distretto ceramico mostra al contrario come le due industrie si siano spesso alternate al timone del processo di cambiamento tecnico. Ad esempio, quando, nel corso degli anni ’80, le imprese leader nella produzione di macchine decisero di dare il via ad un ampliamento delle loro attività interne di R&D, estendendo il ventaglio delle competenze tecniche e delle opportunità di utilizzo dei loro macchinari (entrando, ad esempio sul mercato dei sanitari), la loro dipendenza dalle imprese ceramiche sassolesi diminuì in maniera radicale. I produttori di macchine iniziarono ad esportare i loro prodotti in Europa, America Latina ed Asia, adottando traiettorie di sviluppo tecnologico orientate alla ricerca della maggior affidabilità possibile, così come richiesto dai mercati esteri. Le imprese ceramiche del distretto dovettero far buon viso a cattiva sorte (ovvero ad una mutata composizione dell’offerta di macchine) ed abbandonare tra le altre l’utilizzo della tradizionale argilla rossa, che dovette essere sostituita con la pasta bianca.

 

L’emergere delle innovazioni: un parallelo con la teoria degli equilibri punteggiati

 

Così come formalizzato da Usher[12], il processo di cambiamento tecnico può essere visto come suddiviso in due “filoni”:

 

 

Questa idea ricorda molto da vicino il concetto di “equilibrio punteggiato[13]” introdotto da pochi anni nella biologia evolutiva: lunghi periodi di stasi, bruscamente interrotti da radicali trasformazioni che hanno luogo in tempi estremamente brevi.

 

Questa intuizione risulta coerente anche con l’idea schumpeteriana dello “sciame imprenditoriale[14]”.

 

Figura 1 - Esempio di come il rendimento di una certa tecnica produttiva possa essere soggetto a piccoli miglioramenti cumulativi (di rilevanza via via minore con il passare del tempo), intervallati di tanto in tanto dalla comparsa di radicali innovazioni strategiche.

 

Non appena si intravedono i segnali prodromici di una violenta rottura del periodo di stasi (ossia non appena la possibile adozione di una nuova tecnica diventa un patrimonio conoscitivo diffuso), diversi imprenditori scelgono di compiere investimenti per l’introduzione di questa nuova tecnica nel contesto del loro processo produttivo. Una volta che questa nuova tecnica entra sul mercato, generando un aumento del rendimento[15] delle imprese che scelgono di adottarla, il periodo di stasi è interrotto. Dopodichè, l’arrivo dello “sciame” di imprenditori è fondamentale affinché la nuova tecnica venga progressivamente affinata, rafforzando la rottura nei confronti del passato. E’ lecito ipotizzare che questi miglioramenti apportati successivamente alla prima introduzione della nuova tecnica si concentrino soprattutto nei primissimi mesi, dando origine a quelle che Schumpeter chiama “costellazioni di innovazioni[16]”.

 

I fallimenti nella diffusione di un’innovazione: il caso del kervit

 

L’interazione virtuosa di tutte quelle forze che abbiamo descritto sinora e che ha permesso al distretto ceramico di Sassuolo-Scandiano di crescere al punto di diventare una delle più brillanti realtà economiche italiane, non è stato una caratteristica costante nel corso del tempo. Le vicende di Antonino Del Borgo e della sua invenzione, il “kervit”, sono esemplificative di come tutte le sinergie esistenti all’interno del distretto possano altrettanto violentemente ripercuotersi contro le imprese che operano all’interno del distretto stesso.

 

Giovane e brillante chimico formatosi alla Scuola d’Arte Ceramica di Faenza, Antonino Del Borgo venne chiamato, poco più che ventenne, a ricoprire il ruolo di caporeparto all’interno della Ceramica Veggia, a Sant’Antonino di Casalgrande. Dopo soltanto sei mesi di lavoro, il giovane iniziò a costruirsi un nome con l’introduzione della prima di quella che diventerà nel tempo una lunghissima serie di innovazioni: l’utilizzo di smalti all’arsenico in sostituzione di quelli stanniferi tradizionali, divenuti molto costosi[17].

 

In seguito, facendo fruttare l’esperienza maturata durante la sfortunata avventura del vitral (brevettato nel 1935, ma rivelatosi poi inutilizzabile in quanto, durante la posatura, aveva la tendenza a distaccarsi dal muro al quale veniva attaccato[18]), Dal Borgo arrivò a mettere a punto la “tecnica kervit[19]”. Partendo dal presupposto, apparentemente ovvio, che la caratteristica principale della piastrella da rivestimento risiede in quei pochi millimetri di spessore ricoperti di smalto e visibili una volta posata, Dal Borgo mirò a ridurre il più possibile la dimensione del supporto[20]. Per raggiungere questo risultato scelse di operare un cambiamento radicale nella procedura di formatura, utilizzando la colata (effettuata tramite stampi di gesso) al posto della tradizionale pressatura. L’altra dimensione innovativa introdotta nella progettazione del kervit fu la monocottura del biscotto di supporto e dello smalto: tramite particolari preparazioni a base di argilla vetrata, la solidità del prodotto era garantita anche con una singola fase di cottura, della durata di circa due ore e mezzo.

 

Il prodotto finale era un gioiellino[21]. La letteratura tecnica del tempo descrive la tecnologia kervit come tecnologicamente ed economicamente superiore alle tecniche di produzione allora in uso[22]. Ma nonostante ciò, il kervit non riuscì mai ad affermarsi completamente sul mercato e, quando la ceramica Veggia fu costretta a dichiarare fallimento, questa tecnica di produzione sparì completamente dalla circolazione. Questo, malgrado il fatto che molte delle idee alla base della “tecnica kervit” di Dal Borgo furono poi riprese nel momento in cui venne introdotta la “rivoluzionaria” tecnica della monocottura.

 

Non è compito agevole quello di individuare le ragioni per le quali la tecnica del kervit morì contestualmente alla scomparsa dell’azienda nel quale essa era stata progettata ed implementata con successo. Vediamo due possibili spiegazioni di questo fatto.

 

Brevetti e network esternalities: un freno all’innovazione

 

Una possibile chiave di interpretazione ci viene fornita dal ricorso al concetto di “esternalità di rete[23]”. La diffusione di un’innovazione, infatti, non è semplicemente una funzione diretta della bontà di tale innovazione. Affinché una nuova tecnica possa diffondersi in maniera capillare è tra l’altro necessario, per quanto ciò possa apparire come una tautologia, che “essa sia sufficientemente diffusa”. Ossia che possa aver raggiunto quella massa critica di utilizzatori, oltrepassata la quale molti nuovi attori decidono di entrare a loro volta nel gioco, intravedendo possibilità di profitto nella commercializzazione di prodotti e/o servizi collegati alla nuova tecnica. Lo sviluppo di queste “complementarità tecniche” si rivela fondamentale affinché gli utilizzatori possano trarre il massimo profitto possibile dalla tecnica originariamente adottata e sviluppare al tempo stesso una situazione di “lock-in[24]” nei confronti della tecnica stessa.

 

Modificando in maniera radicale la tecnica di produzione delle piastrelle correntemente in uso, Dal Borgo rinunciò alla “convergenza tecnologica” tra la sua impresa e le altre ceramiche appartenenti al distretto. Gli “squilibri tecnici[25]”, che la ceramica Veggia si trovò a dover fronteggiare dopo ogni miglioramento introdotto sulla propria linea di produzione, dovettero essere superati con il ricorso quasi esclusivo alle capacità interne. Questo comportò naturalmente un calendario delle innovazioni molto più diluito rispetto a ciò che accadeva nel resto del distretto ceramico. Durante i vent’anni di sviluppo del kervit, il prodotto finale migliorò sotto vari aspetti, ma la capacità produttiva della linea, così come il suo livello di automazione, rimasero pressoché invariati. Al contrario, la produzione di macchine per la pressatura subì nello stesso periodo una trasformazione considerevole, culminata nello sviluppo di potenti presse a frizione, completamente automatiche. Le imprese ceramiche “tradizionali” accolsero con grande favore questa nuova tipologia di presse, sfruttando l’occasione per dare un nuovo e decisivo impulso allo sforzo teso alla meccanizzazione del processo produttivo. Lavorando a stretto contatto con i produttori di presse, le imprese ceramiche furono poi disincentivate dalla tentazione di modificare l’ampiamente collaudata tecnica di produzione in uso: la paura era quella di perdere quel particolare rapporto con i produttori di macchine, che spesso rendeva loro possibile perseguire rilevanti vantaggi competitivi.

 

Vi è inoltre da prendere in considerazione il forte livello di protezione brevettuale che Dal Borgo scelse di instaurare attorno alla tecnica di produzione del kervit[26], che già era difficilmente imitabile a causa della sua intrinseca complessità. Se la loro intenzione era quella di assicurarsi i benefici derivanti dall’innovazione (vendendo licenze di utilizzo del brevetto), il principale risultato raggiunto fu invece quello di “isolare” completamente dal distretto la ceramica Veggia. Ciò, oltre a bloccare lo sviluppo delle necessarie complementarità tecniche, mise l’impresa in una cattiva luce agli occhi dei potenziali utilizzatori della tecnica di produzione del kervit[27].

 

Il crollo del potenziale generativo delle relazioni

 

Il caso del kervit permette inoltre di analizzare il processo innovativo attraverso una diversa chiave di lettura, che è quella delle “relazioni generative[28]”.

 

Nel modello proposto da Lane e Maxfield[29], il potenziale generativo di una relazione varia in funzione di cinque variabili:

 

 

Tali condizioni devono essere costantemente monitorate affinché gli agenti siano in una posizione tale da poter interpretare i cambiamenti che sono il diretto risultato di queste relazioni.

 

Nel caso della ceramica Veggia, tutte queste cinque condizioni erano rispettate nel momento in cui Antonino Dal Borgo diede il via allo sviluppo della tecnica di produzione del kervit. I problemi sorsero quando, a partire dagli anni ’60, divennero manifesti gli effetti derivanti da un mutamento dell’ambiente competitivo che Dal Borgo non era stato in grado né di prevedere, né tantomeno di comprendere. Al suo genio tecnico non si accompagnava una altrettanto lucida visione del mondo economico: Dal Borgo aveva sempre avuto successo lavorando per conto proprio ed era convinto che, anche negli anni ’60, avrebbe potuto mantenere immutata la storica struttura organizzativo-decisionale dell’azienda, incentrata sulla sua figura, senza la necessità di stringere legami con altri tecnici. Egli, in sostanza, rinunciò del tutto ad avere relazioni con agenti eterogenei rispetto a lui, nonostante questi avessero avuto in passato un importante effetto per le sue stesse innovazioni. Inoltre, la sua sempre più marcata tendenza a ritenersi l’unico “decisore” tecnico dell’azienda, unita alla sua autoritaria risolutezza da padre-padrone, fece sì che tutti gli altri agenti che ruotavano nello spazio della ceramica Veggia non potessero dire la loro: essi vennero cioè privati della libertà di avere relazioni discorsive[31].

 

Le relazioni restanti risultarono dunque svuotate del loro potere generativo. Antonino Dal Borgo, che si ritrovò a dover gestire un’azienda in difficoltà anche a causa di una sciagurata gestione finanziaria, finì per essere schiacciato dal peso, notevolmente cresciuto, della concorrenza. La ceramica Veggia finì per essere stritolata dai “virtuosi” meccanismi del distretto ceramico.



[1] Dove la dimensione dell’impresa è definita in funzione della numerosità della sua forza lavoro.

[2] Schumpeter (1971).

[3] Come sottolineato a suo tempo da uno studio di Prodi [citato in Russo (1996)], tale semplicità del processo produttivo è stata senz’altro uno degli elementi principali che hanno fatto da traino durante la prima “violenta” fase di espansione del distretto ceramico. Oggi, questa stessa semplicità gioca a favore dei nuovi competitors stranieri (Cina in primis) prepotentemente entrati, nel corso degli ultimi anni, nel mercato mondiale delle piastrelle.

[4] La quale prevedeva l’utilizzo di un “atomizzatore” al posto degli essicatori tradizionali.

[5] I problemi erano legati soprattutto alla “seconda cottura”. Con un tempo di cottura della piastrella smaltata di circa 16 ore, eventuali problemi tecnici che si sarebbero manifestati solo a cottura ultimata avrebbero costretto a scartare 2/3 della produzione giornaliera (nell’ipotesi di un utilizzo continuativo, 24 ore su 24, della capacità produttiva installata).

[6] Ricò di Fornovo è un paese situato nel parmense, lontano da Sassuolo e dai principali centri di ricerca del nord Italia. La scelta di collocare il nuovo stabilimento al di fuori del distretto ceramico soddisfava due esigenze distinte: da un lato la necessità di mantenere segrete le conoscenze tecniche specifiche che sarebbero man mano maturate; dall’altro l’esigenza di evitare “contaminazioni culturali” ad opera dei tecnici abituati alla bicottura.

[7] Le modifiche apportate al forno originale, prodotto dalla Swingell&Dressel, furono talmente radicali che difficilmente questo caso potrebbe essere analizzato in termini di trasferimento di tecnologia.

[8] Operazioni che risultavano essere collegate tra loro sul piano tecnologico, ma con impieghi specifici differenti nel contesto del processo produttivo.

[9] Rosenberg (1987).

[10] Alcune di queste imprese erano Marazzi, Richard Minori, Gabrielli, Cibec, Boschi, Morandi, ecc…

[11] Già Allen, in un suo studio, argomentò che il continuo scambio informativo tra produttori ed utilizzatori di macchine permette di creare un patrimonio comune di conoscenze tecniche, che è a sua volta in grado di condurre a miglioramenti nelle caratteristiche tecniche delle macchine. La libera circolazione di informazioni, risultò dunque dalle sue analisi, essere un efficace strumento di generazione di nuove tecniche in quei settori nei quali operano imprese in regime di concorrenza, nessuna delle quali destina una quota rilevante di risorse all’attività di R&D [citato in Russo (1996)].

[12] Usher (1966).

[13] Gould (2000).

[14] Schumpeter (1977).

[15] Dove il termine “rendimento” è inteso nel senso più ampio possibile.

[16] Schumpeter (1977).

[17] Una successiva modifica degli smalti utilizzati porterà Dal Borgo, negli anni Trenta, ad inventare il cosiddetto “Bianco di Sassuolo”.

[18] E’ interessante notare a proposito come Dal Borgo, che pur era un chimico, decise di non concentrarsi sull’ideazione di un collante in grado di supportare il vitral, optando invece per un radicale miglioramento della sua invenzione.

[19] Russo (2000).

[20] Senza eliminarlo del tutto, come invece aveva tentato di fare con l’invenzione del vitral.

[21] In una delle pagine del sito Internet dedicate al Museo della Ceramica di  Spezzano, si legge: “il Kervit, brevettato nel 1957 da Korach - Dal Borgo e diffuso dall'Industria Ceramica Veggia, di Veggia, era sicuramente un esempio di ceramica speciale per quel tempo; si trattava infatti di una piastrella sottilissima, di piccole dimensioni, ottenuta per colaggio di quattro differenti strati, con una pasta composta da materie prime argillose e fritta macinata. Questo materiale smaltato 
fu addirittura presentato sul mercato anche con una decorazione monocroma: i vantaggi erano molteplici, come la leggerezza, la possibilità di stoccare dentro un'unica scatola una quantità molto maggiore di prodotto, la quantità di materia prima ridotta. Una vera straordinaria innovazione diretta alla grande produzione.

(http://www.fiorano.it/Turismo/cultura/InnovazioneTecnologica.shtm).

[22] Alcuni di questi vantaggi erano dovuti all’introduzione del vetro nella miscela ceramica, il quale garantiva una miglior aderenza e coesione degli smalti, unitamente alla ridotta lunghezza dell’intera linea (circa il 70% di quella della tradizionale produzione di maiolica, il 55% rispetto alla terraglia).

[23] Varian, Shapiro (1999).

[24] Varian, Shapiro (1999).

[25] Rosenberg (1969).

[26] Il responsabile dei brevetti, in realtà, non era Dal Borgo ma il suo amico e collega Korach.

[27] Infatti, se dopo molti anni un prodotto innovativo viene ancora offerto da un solo fornitore, la sensazione che matura nel pubblico è quella che “qualcosa deve essere sbagliato, altrimenti gli altri lo avrebbero fatto”.

[28] Lane, Maxfield (1997).

[29] In questo modello giocano un ruolo fondamentale le “attribuzioni”, ossia il significato che gli agenti attribuiscono a sé stessi, ad altri agenti o ad artefatti. Gli agenti operano in funzione delle proprie attribuzioni, instaurando relazioni con altri agenti e definendo in questo modo la struttura del loro campo d’azione.

Tra i vari tipi di relazioni che possono instaurarsi, le cosiddette “relazioni generative” sono quelle in grado di condurre a cambiamenti nel modo in cui chi partecipa alla relazione percepisce il mondo ed agisce al suo interno, aprendo la strada ad innovazioni, generalmente caratterizzate come nuove entità (nuovi agenti, nuovi artefatti, nuove istituzioni, ecc…). Le relazioni generative sono importanti in questo schema, poiché sono esse che inducono anche cambiamenti nelle attribuzioni. Questi cambiamenti (solitamente di natura cumulativa) creano a loro volta le condizioni per la nascita di nuove relazioni generative.

[30] Ad esempio quando le attività dei partecipanti ad una relazione riguardano tutte lo stesso tipo di artefatto, anche se le relazioni che hanno nei confronti di esso sono tra loro differenti.

[31] Un altro aspetto che sarebbe possibile sottolineare è che, tra Dal Borgo e Korach, venne a mancare una convergenza di vedute: l’ingegnere ungherese si dedicò agli aspetti commerciali delle vendite delle licenze all’estero, perdendo la possibilità di mobilitare i propri legami tecnici e di produzioni che avrebbero potuto generare lo sviluppo delle attività complementari collegate al kervit. Ritengo comunque tale aspetto secondario rispetto agli altri qui elencati.